
Tessile riciclato, il distretto a Roma: “Il nostro sistema sia un modello”
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Il distretto pratese è il centro nazionale del sistema degli abiti usati, che si è evoluto nelle sue rotte ma la cui radice è rimasta la stessa raccontata da Malaparte e da Nesi. Cinquanta aziende e seicento lavoratrici: i vestiti migliori tornano sulle nostre bancarelle, gli altri finiscono nei mercati più remoti.

dalla campana al banco, per poi finire in San Lorenzo, o magari in Africa, quando non in discariche attrezzate. Il viaggio degli abiti usati ha la sua capitale nel distretto pratese, vero snodo di questo sistema a livello nazionale.
Cinquanta aziende e seicento operatori, quasi tutte donne, costituiscono il reticolo industriale del settore. Dal sacchetto in cui riponiamo in casa gli abiti il tragitto prosegue ai punti di raccolta: le campane o i centri abilitati, che sono spesso presenti in corrispondenza di strutture che ospitano missioni, associazioni e realtà sociali del territorio. Comincia così, ogni mattina, il viaggio dei vestiti che non usiamo più.
La mattina presto decine di camion preposti al servizio fanno il giro dei punti in cui vengono conservati gli abiti. Da Barberino ad Arezzo, tutti gli «stracci» finiscono a Prato. Con questo termine apparentemente sprezzante, in realtà colmo d’affetto per i lavoratori del settore, il distretto ha sempre bollato gli abiti usati che provenivano da ogni parte del mondo per esser trattati. La letteratura di genere (industriale) come quelle più alte e popolari hanno attinto a piene mani dai cernitori:
gli scritti di Curzio Malaparte e Edoardo Nesi sono testimonianze vive di una tradizione che si è evoluta con la globalizzazione, ma la cui radice è rimasta uguale a sé stessa. Negli ultimi decenni i flussi sono dunque molto cambiati, tuttavia non il sistema:
la provincia di Pratoè l’unica in Italia ad avere una filiera completa del riuso, interamente rappresentata in tutte le sue sezioni.
Quando i sacchi arrivano nelle aziende che si occupano dell’usato vengono scaricati in giganteschi carrelli, griglie contenitive di metallo che scorrono tramite un nastro trasportatore sulle teste dei lavoratori: con delle carrucole i sacchi vengono condotti a terra, in corrispondenza delle postazioni che si liberano. Lì vengono aperti e sottoposti ad un’ispezione minuziosa: le operatrici che squadernano gli abiti, ciascuna sul proprio bancone, diventano giudici del loro destino. Si decide in quale stato d’uso sia il capo: una valutazione soggettiva che stabilisce se è di prima, seconda, terza o quarta scelta.
Se l’operatrice nota un buco o un elemento di sporcizia l’indumento non è riutilizzabile
per un secondo mercato, così come se il «taglio» risulta essere del tutto fuori moda. Allora questi indumenti sono destinati alla fase del riciclo. Una volta terminata la fase di prima scelta c’è la vera cernita dei tessuti, che avviene sia tramite il tatto delle operatrici che con le etichette: lana, lino, cotone, misto. Una parte, quelli che hanno passato le selezioni, diventeranno dunque cosiddetti abiti «nuovi usati»: quelli di maggior qualità finiscono sulle bancarelle italiane dei mercati, quelli di meno pregevole fattura vengono inviati nei posti più remoti dell’Asia, del sud America e dell’Africa.
Seguendo il luogo di destinazione vengono dunque re-imballati: sono decine di migliaia di tonnellate all’anno di vestiti che seguono la rotta passando dalla provincia di Prato, con tutto un indotto che ovviamente si articola per i materiali e i macchinari utilizzati per il processo. In discarica finiscono invece solo le parti non riutilizzabili (il 2% circa del prodotto), soprattutto costituite da bottoni e cerniere.


Il governo decide, la filiera pratese chiede spazio. Si fa presto a dire riciclo: il processo è colmo di passaggi e insidie. Ad esempio: a chi andrà—si chiedono a Prato—il «contributo ambientale» previsto nel nuovo sistema di regole che ridefinisce responsabilità estesa del produttore in ambito di rifiuti tessili? Il timore è quello di rimanere fuori dalla partita, ovvero che siano le grandi griffe ad accaparrarsi la torta dei finanziamenti che ridefiniscono il riuso nel solco della sostenibilità ambientale.
In questo senso il Corertex, il Consorzio per il riuso e il riciclo tessile che ha sede a Montemurlo, ha lanciato il proprio allarme. Nelle scorse settimane ha inoltrato le proprie osservazioni al ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica in merito alla bozza di decreto. I documenti sono stati inviati e condivisi con Astri, l’associazione tessile riciclato italiana, che invece ha il suo cuore nella Val di Bisenzio.
Un provvedimento atteso da tempo nel distretto di Prato e che adesso si avvicina a una definizione. Nel perimento della bozza di decreto rientrano abbigliamento, accessori e tessili per la casa, come tovaglie o lenzuola. La bozza, che già a livello nazionale ha suscitato un acceso di battito fra i vari attori della filiera, viene definita dal presidente del Corertex, Raffaello De Salvo «un buon inizio per normare il settore ma che presenta notevoli criticità, soprattutto sotto l’aspetto tecnico».
Si tratta di un documento complesso che tocca la convivenza tra pubblico e privato, il bilanciamento tra sostenibilità ambientale ed efficienza economica, il rischio di compromettere tutti i risultati raggiunti fino ad oggi, l’aspetto sociale e inclusivo rappresentato dalle cooperative di raccolta. Il Corertex, per spiegare alcune delle criticità, prova fare un esempio pratico. «La bozza di decreto prevede come obiettivo quote di riuso, riciclo e recuperodel 50% entro il 2035—aggiunge il presidente del consorzio—Ma non specifica le singole quantità. Questo quindi potrebbe significare l’ipotesi che venga preferita la quota di recuperoenergetico, con i termovalorizzatori ad esempio, a discapito del riuso e del riciclo. Il tutto con il risultato della perdita di preziosa materia prima e in netto conflitto con lo schema europeo dei rifiuti. Tengo a precisare che il distretto pratese, tramite la filiera esistente, riusa e ricicla fino al 97% dei cicli post consumo trattati, ben oltre le soglie del 50% ipotizzate dal ministero nella bozza di decreto».
Di fatto nelle proprie osservazioni il consorzio ha suggerito a Roma come sia preferibile e meno impattante implementare e migliorare il sistema attuale di gestione dei cicli post consumo piuttosto che rifondare completamente l’intero percorso con conseguenti maggiori costi e rischi di minori garanzie.